Il Quadrivio e l’orgolese mudu che croca
Dal “Quadrivio” si cominciava ad uscire dalla città e dopo il breve rettilineo centrale c’erano già orti e vigne, Badu ‘e carros col suo ponticello in ferro sulla curva a gomito e poi il rettilineo verso il pino di Grazia Deledda, dove si sperava sempre di portare qualche ragazza a romanticare, ma non succedeva mai.
A destra la leggera salita verso Orune e Bitti e, dopo la prima grande curva, “il talco” della facoltosa famiglia Guiso Gallisai.
Non sapevamo bene come si producesse il talco e non che ce ne fregasse molto; è che si vedevano quel pezzo di strada, gli alberi e l’erba della collinetta sempre ricoperti di una polverina bianca un po’ appiccicosa; e i camion, anch’essi tutti imbiancati, che entravano e uscivano.
A sinistra la strada per Mamoiada e Orgosolo, che però aveva un’aria un po’ ostile con tutte quelle curve subito in discesa ripida , senza alberi e senza niente intorno.
All’inizio della strada, il muro rosso-pompeiano dell’ “artiglieria”, il suo grande cancello nero sempre chiuso, con ai lati le sagome di due bombe grandi e appuntite che sembravano proprio vere.
Cosa si facesse dentro l’ “artiglieria” non si sapeva bene. Armi? Munizioni? Le portavano via durante la notte? Chi ci lavorava dentro non parlava, o parlava poco. -Manutenzione di macchinari militari- era la frase generica più sentita. Così la fantasia dei ragazzi galoppava. Se scoppia un deposito morirà un sacco di gente; ma ci sono le guardie giorno e notte. Il mistero era sempre vivo.
Tra la strada per Mamoiada e quella centrale per Macomer, troneggiava il “quadrivio”, il nostro campo di calcio in terra battuta che quando cadevi ti venivano via striscette di pelle e la terra rimaneva attaccata al poco sangue che usciva. Andavi a bordo campo, ci pisciavi sopra e di nuovo al tuo posto.
Le linee bianche laterali, l’area di rigore e il dischetto le faceva a mano il signor Cocco. Prendeva un grosso innaffiatoio, lo riempiva di calce bianca molto liquida e la versava con attenzione su ciò che era rimasto della linea bianca precedente. Quando la mano tremava, tremava anche la linea. Ma per noi era bellissima e perfetta lo stesso. Comunque le linee del campo e le aree di rigore si tracciavano solo quando giocava “la Nuorese”. Non c’erano le tribune e il pubblico faceva tifo stando ai due lati del campo. Lì sì che era bello anche se non giocavi; sentivi il sibilo del pallone, l’ansimare dei giocatori; vedevi il sudore, mandavi affanculo l’arbitro che un po’ si impauriva pure. Gli scheletri delle porte erano in legno un po’ vecchiotto e al centro erano incurvate. Anche le reti comparivano solo quando giocava la Nuorese di Zumburru, Gigi Baffi, Costantino Mannironi, i fratelli Bombagi e, più tardi, Titino Floris, Zommeddu Mele, Bobore Sanna, tonino Piras , noto Glen, Francesco Pintor.
Da giocatore, da pubblico, da guardalinee; il bello era starci dentro, vicino. Vicino allo sgambetto e al rigore parato, al pallone che ti rimbalza davanti e quasi lo puoi toccare. Poi piove d’improvviso ma a scappare neanche ci pensi e al massimo ti metti con altri tre o quattro sotto un unico ombrello, tanto mancano solo venti minuti e speriamo che Titino segni. Quando vai all’Olimpico i giocatori sono formichine, il pallone è una pallina da biliardo , tutto è lontanissimo. Stai a casa in poltrona: tutto è vicinissimo e poi c’è quello che ti spiega tutto.
Ma tu che fai? Impari? Ma una partita non si impara , una partita è come un’ora di sole, un piatto di spaghetti, un pugno sullo stomaco, un profumo, una carezza, si vivono e basta.
tratto dal sito sardinianews.it